Relazione introduttiva
Congresso Camera del Lavoro di Padova
Gentili Ospiti, Istituzioni, care compagne e cari compagni,
in questo stesso luogo, il 22 ottobre 2018, prendevano avvio i lavori del VI° Congresso della Camera del Lavoro di Padova. Sono passati quattro anni, durante i quali la nostra esistenza è stata stravolta da eventi che avremmo dovuto intuire ma che in quel momento non eravamo in grado di prevedere.
Intuire perché un modello economico come quello che ci domina da quarant’anni e che va sotto il nome di neoliberismo non poteva che portarci esattamente dove siamo oggi.
Pandemia, guerra, crisi climatica, non sono frutto del caso, come proverò ad argomentare nel corso della mia relazione, ma l’approdo naturale di un sistema volto allo sfruttamento dei più per consentire l’infinito arricchimento di pochi.
Un arricchimento che non conosce confini e che si spinge fino alle estreme conseguenze mettendo in discussione la nostra stessa sopravvivenza e la demo crazia, come gli accadimenti del Brasile dimostrano, con il tentato golpe fascista ai danni del Presidente Lula a cui va la nostra solidarietà e il nostro sostegno incondizionato.
Il primo impatto lo abbiamo avuto con la pandemia. Da anni si paventava l’avvento di virus rischiosi per l’umanità ma abbiamo sempre pensato che si trattasse di esagerazioni, fino a quando nel febbraio del 2020 non abbiamo avuto drammaticamente chiaro che quanto ci era stato prospettato, era vero.
I primi morti, le successive misure di isolamento, il piombare dalla sera alla mattina in una realtà che solo pochi mesi prima non potevamo neanche immaginare.
Il doversi confrontare per la prima volta con un nemico invisibile che portava distruzione e morte, la necessità di reinventarsi nel nostro quotidiano, nelle relazioni, nel lavoro, nell’attività sindacale. Il non avere le istruzioni per l’uso.
Giorno dopo giorno, sulla pelle di ciascuno di noi abbiamo imparato a convivere, a prendere le misure. Non è stato facile.
Lo racconto dal nostro osservatorio. La paura aleggiava nei luoghi di lavoro e nel territorio. Chi era in frontiera, gli ospedali, le case di riposo, i supermercati affrontava quasi a mani nude il veloce propagarsi del virus.
Eravamo tempestati di telefonate di aiuto e nello stesso tempo in difficoltà perché non attrezzati, almeno i primi tempi, per il sostegno a distanza. Nonostante ciò le nostre sedi, anche quelle nei luoghi più rischiosi, restavano aperte, seppur chiuse agli esterni.
Non ci siamo arresi, nel giro di breve ci siamo organizzati. Categorie e servizi, grazie a funzionari, segretari, operatori, apparato, pensionati, delegati, che ancora una volta ringrazio, hanno fatto sentire la loro presenza e dato il loro apporto.
Riunioni quotidiane del gruppo dirigente ad ogni livello ed in ogni momento, sere e domeniche comprese, hanno permesso di confrontarsi, di solidarizzare, di analizzare, di fare proposte anche alla luce dei frequenti DPCM che venivano emanati.
Nonostante le avversità c’è stato spazio per mobilitazioni che hanno portato nel giro di breve a due misure nazionali di fondamentale importanza ed uniche in Europa: il Protocollo per contrastare la diffusione del Covid-19 nei luoghi di lavoro, il blocco dei licenziamenti.
Il serrato e utile confronto con le Istituzioni.
Tutto ciò ci ha permesso di affrontare, non senza sofferenza e timori la tempesta nei momenti più bui: la pressione crescente della pandemia nelle realtà sanitarie e non, considerate essenziali, la chiusura di tutti gli altri luoghi di lavoro.
Poi è venuto il momento delle riflessioni. Il cercare di capire come era potuto accadere. La versione più accreditata racconta di un virus estirpato dal proprio habitat a causa del disboscamento, favorendone il salto di specie, nonché di abitudini alimentari non rispettose della biodiversità e dell’ambiente.
Un racconto che non possiamo imputare ai Cinesi, perché ci riguarda tutti e che fa riferimento a un modello non più sostenibile.
Non è un caso se la pandemia ne ha messo a nudo i limiti e le distorsioni, anche sotto altri aspetti, ad esempio ci ha reso brutalmente evidente che viviamo in un mondo fatto di disuguaglianze, di povertà, di assenza di tutele.
Il caso più eclatante quello dei vaccini, prodotti da case farmaceutiche private, nonostante la ricerca pubblica e diffusi per primi ai paesi occidentali, in grado di pagarne il prezzo escludendo, soprattutto all’inizio, ampie fette di popolazione mondiale appartenenti a Stati o Continenti poveri.
C’è poi l’altra faccia della medaglia. La pandemia ci ha reso consapevoli dell’importanza della sanità, della ricerca, del loro valore universale, dell’essere fattore di uguaglianza.
Queste considerazioni, dall’ambiente alla salute, hanno portato la nostra Organizzazione a dire che un altro modello non solo è auspicabile ma fondamentale. Speravamo la pandemia fosse un monito, una scossa per ripensare noi stessi.
Confidavamo in uno scatto di reni dell’Europa che già prima del virus il tema se l’era posto, con il Green New Deal, un piano che ha al centro il clima e le disuguaglianze.
Ad emergere è stata, sulla distanza, la debolezza politica dell’Unione.
La pandemia, infatti, ha avuto la funzione di resettare, in informatica vuol dire azzerare le operazioni elaborate per poi riavviare la macchina.
Alla sua ripartenza il quadro risultava completamente mutato.
L’arrestarsi del processo economico di globalizzazione ha fatto sì che si provassero a stabilire nuovi equilibri. La Cina più lesta degli altri si è appropriata delle materie prime, determinandone la crescita del valore. Lo stesso dicasi per l’aumento del costo dell’energia, in particolare il gas.
Si è provato cioè a spostare il dominio occidentale, per molto tempo incontrastato, verso oriente, dopo un lungo periodo di preparazione, almeno da quando la Cina ha assunto un ruolo leader in ambito produttivo e commerciale.
Le tensioni che ne sono scaturite sono all’origine dell’attuale conflitto.
La Russia, ex superpotenza, ha provato ad approfittare di questa situazione di crisi per riaffermare un proprio protagonismo.
Per comprendere il fenomeno bisogna risalire agli ultimi anni 80, alla caduta del muro di Berlino e alla fine della Unione Sovietica.
Il termine della guerra fredda, il trionfo di un capitalismo senza regole, l’incapacità di governare un processo geopolitico complesso, ci ha portati dove siamo oggi.
Nella storia, dall’800 in poi, è quasi sempre prevalso lo sforzo di trovare una via d’uscita politicamente collettiva a situazioni drammatiche: il Congresso di Vienna del 1814, i Trattati di Parigi del 1946 ne costituiscono un esempio.
Nel caso dell’Unione Sovietica non fu così, non ci fu alcun tentativo di trovare un accordo, con la conseguenza che la Russia è stata confinata ad un ruolo subalterno, regionale, erodendone progressivamente le aree di influenza, fino a minacciarne i confini.
L’attuale situazione, come dicevo prima, ha costituito per la Russia una occasione per cercare di riconquistare il terreno perduto.
Il punto debole lo ha individuato nell’Ucraina, una vicenda che non nasce un anno fa ma che è datata 2014, quando in Ucraina lo scontro tra filo occidentali e filo russi si concluse con gli Accordi di Minsk di cui l’Europa si sarebbe potuta fare garante e che così non fece.
In questo modo si è lasciato terreno libero alla Russia che, approfittando del momento di crisi internazionale, ha deciso di giocarsi la partita in proprio, dando avvio ad una terza guerra mondiale, che se non è ancora deflagrata lo si deve all’esistenza delle armi nucleari, il cui uso non è da escludere.
La guerra convenzionale, ha comunque determinato la morte di quasi 200.000 persone tra militari e civili e prosegue per altre vie: dalla riduzione degli approvvigionamenti di gas, alle sanzioni, alla crisi del grano.
Decisioni che hanno effetti sulla vita di milioni di persone nel mondo.
Un conflitto in cui si giocano interessi enormi, tra cui quelli di Stati Uniti e Cina che oltre a contendersi la leadership mondiale, competono per la conquista di nuove aree di sviluppo, a partire da quella dell’Indo-Pacifico.
Una conquista non solo in termini di mercato ma anche di primato tecnologico, si pensi al 5G e all’intelligenza artificiale che vede coinvolti oltre agli interessi degli Stati anche quelli dei principali Competitors privati.
Una guerra preparata nel tempo, poiché già nel 2021 la spesa militare globale aveva raggiunto il suo massimo dal 1949: duemila miliardi di dollari, in particolare a carico di Stati Uniti, Cina, Russia, India e Regno Unito. Non un caso.
Una guerra che riproduce le stesse dinamiche iniziali della seconda guerra mondiale, quando la Germania occupò la Cecoslovacchia prima e la Polonia poi per rivendicare la titolarità sui Sudeti, di lingua germanofona e sul corridoio di Danzica che univa la Prussia Orientale alla Prussia Occidentale.
Corsi e ricorsi storici.
Una guerra a cui si può porre fine solo per via diplomatica, il che richiederebbe un forte protagonismo dell’ONU e dell’Unione Europea, nate per garantire la pace e dimostratesi sino ad oggi di una fragilità straordinaria.
E’ questa la ragione che rende necessario dare vita a un grande movimento di popolo che si batta per la fine della guerra e che spinga alla pace gli Stati e gli Organismi Internazionali.
E’ la strada che abbiamo intrapreso come Cgil aderendo alla Rete Pace e Disarmo e partecipando ad ogni iniziativa, ultima delle quali, la bellissima manifestazione del 5 novembre a Roma che ha visto coinvolte, oltre al Sindacato Confederale, centinaia di associazioni laiche e cattoliche e migliaia di persone.
Non è un’idea romantica se si pensa al contributo civile che aiutò a porre fine al secondo conflitto mondiale, ad esempio attraverso gli scioperi nelle fabbriche del 1943.
Il terzo elemento è la crisi climatica, non disgiunta dalle due precedenti.
Ho avuto modo, partecipando al Congresso Provinciale della Fiom, di ascoltare attentamente Luca Mercalli, noto climatologo, invitato a portare un contributo.
Mercalli ha ripercorso le tappe storiche che ci hanno portato fin qui e che hanno origine con l’avvento della prima rivoluzione industriale in Gran Bretagna, nella seconda metà del settecento, quando si iniziarono ad utilizzare i combustibili fossili. Poi, una straordinaria accelerazione si ebbe negli anni 80 del secolo scorso, ancora una volta gli anni del capitalismo imperante.
Al fine di creare quel plusvalore di marxiana memoria, ossia il perseguimento del massimo profitto si è sfruttata e si continua a sfruttare qualsiasi condizione ne favorisca il perseguimento.
Che si tratti di lavoro, di uso di materie prime inquinanti, di deforestazione, di alterazioni di corsi d’acqua, di smaltimento di materiali tossici, l’arricchimento è il fine unico e principale.
Oggi il Pianeta, comunque destinato a sopravviverci, è la specie umana a rischio di estinzione, ci presenta il conto.
Alluvioni, frane, ritiro dei ghiacciai e smottamento degli stessi, innalzamento del livello del mare, aumento delle temperature, siccità, sono il manifestarsi del preoccupante stato di crisi in cui ci troviamo.
Eventi che si incrementeranno nel tempo se non proviamo a ridurne i danni. Come dice Mercalli lo scopo non è ritornare al passato, impossibile, ma attenuare e arrestare le conseguenze. L’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura entro il grado e mezzo è già un’utopia, se dovessimo essere virtuosi potremmo evitare di superare i due gradi entro il 2100, viceversa le stime dicono che la temperatura aumenterà di cinque gradi. Vi lascio immaginare lo scenario.
Meglio di noi lo hanno capito le generazioni più giovani che ne hanno fatto motivo principale delle loro battaglie.
Ma questo, ancora una volta, non ci esime. Se tale è il modello, me lo sentirete ripetere più volte, a noi va bene o no? E se non va bene, cosa possiamo fare per cambiarlo?
Richiamo la vostra attenzione perché l’alternativa non è un lieve peggioramento delle attuali condizioni ma è la catastrofe.
Noi abbiamo una certezza, tutto questo non avviene per caso. Avviene perché alla base ci sono scelte speculative, produttive, economiche precise che andrebbero politicamente modificate.
E la politica la determiniamo noi, non altri.
Ad esempio il Veneto è ai primi posti in Italia per consumo di suolo ma in pochi richiamano chi governa alle proprie responsabilità. Eppure qui abbiamo avuto il fenomeno dell’Acqua Granda a Venezia e la tempesta Vaia nelle Dolomiti. Quest’ultima causò 37 morti.
Eventi che non sono inevitabili ma che sono frutto della mano e delle scelte dell’uomo, e che per questo andrebbero modificate, favorendo politiche di mitigazione e di adattamento.
Le prime finalizzate a ridurre la emissione di gas serra in atmosfera attraverso una mobilità sostenibile, il ricorso alle energie alternative, la cessazione dell’uso dei combustibili fossili.
Le seconde consistenti nel mappare le aree a rischio idrogeologico, in Italia il 94% dei Comuni, nel prevedere sistemi di allerta che favoriscano la messa in sicurezza della popolazione in caso di alluvione o frana, nel contrastare in ogni modo e con ogni mezzo il fenomeno della siccità.
I ritardi sono notevoli. Cito due esempi. Le alluvioni ad Ischia durano da almeno un secolo, ogni volta si dice che si farà ma il risultato è sempre lo stesso. L’ultima volta i morti sono stati tredici.
Di energie alternative, invece, se ne parla da almeno un ventennio, eppure si continua a dipendere dal gas russo, salvo voler ricorrere alle trivellazioni, all’uso del gas liquido, molto costoso e pericoloso, alla riattivazione delle centrali a carbone.
C’è chi teorizza che una delle ragioni della guerra sia anche questa, il timore che l’Europa e quindi l’Italia possano fare sul serio in termini di “Green New Deal”, di investimenti in energie alternative andando a intaccare, di conseguenza, interessi economici enormi.
Questo ci fa capire che se così fosse, se sul serio si perseguisse questo obiettivo, oltre a contribuire al miglioramento delle condizioni climatiche, il nostro Continente assumerebbe indipendenza, forza e autorevolezza che ne accrescerebbero il peso politico a livello internazionale, consentendogli di uscire dalla condizione di nanismo in cui si trova, che ne fa, oggi, un vaso d’argilla tra vasi di ferro.
Un’Europa che deve decidersi, una volta per tutte, se continuare ad esistere per svolgere una pura funzione contabile, ed allora il respiro è corto o se diventare quell’Europa Federalista, agognata da Altiero Spinelli, in grado di svolgere un ruolo internazionale determinante ai fini della pace, della giustizia sociale, dell’uguaglianza.
Un’Europa capace, dopo la seconda guerra mondiale, di intraprendere quella via mediana tra capitalismo e socialismo reale, che si sostanziò nella creazione e nell’affermazione dello Stato Sociale.
Un’Europa che ha smarrito questa vocazione, abbracciando l’avanzata delle politiche neoliberiste che, come ho sin qui descritto, tanti danni hanno prodotto, salvo una inversione di tendenza durante il periodo della pandemia che non può restare un fatto isolato.
Tra le principali vittime sacrificali di questa scelta il lavoro e i suoi diritti.
Lo abbiamo visto in Italia, dagli inizi del 2000, la decisione di aderire ad una filosofia di mercato per la quale l’economia non è materia politica e democratica ma deve essere affidata a degli specialisti, ha fatto sì che tutele e diritti nel tempo si smantellassero, dando luogo ad una frammentazione del lavoro senza precedenti.
Frammentazione che ha conosciuto una continua evoluzione fino alle estreme conseguenze, abolendo di fatto l’articolo 18 e arrivando a lambire le soglie del caporalato attraverso l’esplosione del fenomeno dei voucher, oggi pericolosamente reintrodotti. Il loro uso si incrementò, esponenzialmente, nell’arco di tempo che va dal 2008 al 2017, quando si arrestò grazie alla nostra proposta di referendum.
I risultati sono evidenti. La crisi del 2008, del 2013 e quelle più recenti, hanno fatto sì che esplodesse il fenomeno del precariato, toccando l’apice nell’anno appena passato quando le persone interessate sono state 3.200.000, il numero più alto dal 1977.
Un numero relativo. Come bene illustrato da un recente studio della Fondazione Di Vittorio, coloro che vivono complessivamente una condizione di disagio sono quantitativamente superiori perché ai lavoratori temporanei vanno aggiunti i part time involontari e gli occupati sospesi, in quest’ultimo caso chi è in cassa integrazione per un periodo inferiore o pari a tre mesi. Il totale fa circa cinque milioni.
Ma non basta. Il dato cresce ulteriormente con i disoccupati e gli inattivi scoraggiati, sospesi o bloccati, cioè chi il lavoro non lo cerca perché pensa di non trovarlo o chi non ha il tempo di farlo in quanto deve prendersi cura dei figli o degli anziani non autosufficienti. Si parla di disoccupazione sostanziale e coinvolge altre 4.200.000 persone, percentualmente il 16% sul totale dell’occupazione, il doppio dell’attuale tasso ufficiale, che è poco sotto l’8%.
Recentemente è stato comunicato che abbiamo raggiunto il record di lavoratori occupati, pari a 23,2 milioni ma anche questo dato è confutabile, si lega alla diminuzione della popolazione in età da lavoro, - 637.000 persone.
Dalla elencazione e dall’analisi di questi numeri emerge che più di 9.000.000 di persone versano in una condizione di importante difficoltà.
Se dovessimo poi tracciarne un identikit più preciso scopriremmo che sono donne, giovani, complessivamente fino ai 40 anni, con un tasso di istruzione basso e scarsa qualifica professionale.
Il fenomeno del lavoro povero è stato ulteriormente indagato dall’ex Ministro Orlando che a tale proposito ha istituito una apposita Commissione. Anche in questo caso emergono informazioni importanti. Esattamente come da noi denunciato la percentuale di persone interessate, pari all’11,9%, è superiore di oltre due punti la media europea.
Soprattutto è un dato sottostimato, in quanto la definizione europea ufficiale di lavoro povero, riguarda chi non lavora da almeno sette mesi e vive in una famiglia il cui reddito è pari al 60% del reddito mediano. Al di là dei tecnicismi, molto spesso le donne non sono ritenute lavoratici povere in quanto, all’interno della famiglia sono considerate seconde percettrici di reddito, per cui se il coniuge o compagno guadagna a sufficienza il loro status cambia.
Una evidentissima discriminazione che ci dice molto della cultura dominante, ferma agli anni 50 e 60 e che spiega le ragioni delle differenze di retribuzioni e di carriera.
Interessante poi l’individuazione dei settori in cui il lavoro povero insiste maggiormente, esattamente nel terziario, in particolare negli alberghi e nella ristorazione, ambiti in cui Il Governo Meloni reintroduce i voucher. Non è un caso e rende l’idea della concezione di lavoro di questa maggioranza.
Al fenomeno del lavoro povero si lega quello della povertà assoluta, siamo arrivati a quasi 6.000.000 di individui, di cui 1.300.000 minori. Numeri destinati a crescere. Lo si è visto con la pandemia. I primi ad essere esclusi dal mercato del lavoro sono stati i precari, i disoccupati, gli inattivi, coloro che adesso vengono ulteriormente falcidiati dalla crisi e dalla crescita dell’inflazione.
Non meraviglia allora se siamo un Paese a bassissima natalità, se nel 2030 diminuiremo di 1.000.000 ed entro il 2050 di 5.000.000.
Se non si è in grado di garantire stabilità, di dare prospettiva, di infondere fiducia nel futuro il risultato non può che essere questo.
Per giunta nemmeno compensato dall’arrivo dei migranti, nei confronti dei quali c’è un accanimento puramente ideologico e razzista. Intanto perché non si è onesti nella lettura di quanto sta accadendo.
Indicarli come privilegiati, persone che possono permettersi di pagare uno scafista, individui che spesso vengono qui a delinquere, è strumentale a incutere la paura necessaria alla crescita del consenso, e già questo è grave. In più si offende pesantemente la loro dignità.
La realtà è che fuggono da guerre, crisi climatiche, fame, siccità di frequente indotte dal nostro occidente, fuggono perché non hanno alternative, esattamente come faremmo noi e come abbiamo fatto noi nel passato. E’ un istinto irreprimibile cercare di sopravvivere.
Accanirsi nei confronti delle ONG, pagare altri Stati, come Libia e Turchia, per tenerceli lontani dalla vista, violando i più elementari diritti umani, sono misure placebo che molto presto non faranno effetto, perché l’ondata di arrivi sarà dilagante e noi non saremo in grado di arrestarla.
Politiche di accoglienza, di integrazione, di distribuzione tra i vari paesi europei sono la via giusta, anche perché di queste persone abbiamo bisogno per compensare il calo delle nascite, un trend negativo che pur volendolo invertire richiederebbe tempi lunghi.
In ogni caso si tranquillizzi il Ministro Salvini. Attualmente nemmeno i migranti vedono il nostro paese come attrattivo, come accogliente, dato che ogni anno lasciano l’Italia almeno in 140.000.
A questo numero, peggiorando ulteriormente la nostra condizione, va aggiunto quello degli Italiani che emigrano in misura di 100.000, prevalentemente giovani, scolarizzati e ben qualificati.
Mi scuso per i tanti numeri che vi sto fornendo ma è necessaria una lettura precisa e dettagliata se si vuole comprendere fino in fondo lo stato di grave malattia in cui versa il nostro Paese, a partire dalla propria condizione sociale.
E’ da lungo tempo che lanciamo questo grido di allarme, che chiediamo ai governi ascolto e disponibilità al confronto.
Siamo spesso inascoltati. Ed allora vengo al tema della politica e dei partiti che hanno smesso di occuparsi di lavoro, soprattutto coloro che si definiscono di sinistra o progressisti.
Evito di attardarmi in analisi che richiederebbero troppo tempo, credo di avere ampiamente illustrato lo stato delle cose, mi limito ad evidenziare il dato più eclatante delle ultime elezioni politiche, una percentuale di astensione senza precedenti, che ha sfiorato il 40%. Ma il dato che fa più effetto è la crescita del numero di chi non è andato a votare rispetto alle elezioni del 2018: il 9% in più.
Se il fenomeno dell’astensionismo è in aumento da tempo, un balzo così non lo si era mai registrato, tra una elezione e l’altra, non si superava il 2%. Soprattutto, ed è questo l’aspetto più grave, chi non va a votare, come evidenzia l’Istituto Cattaneo e non la Cgil, sono coloro che versano in una condizione di malessere sociale.
Di fatto viene meno quel principio costituzionale per cui la l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, perché è la dignità del lavoro e non il lavoro in sé a garanzia della nostra democrazia e se la dignità viene meno in pericolo è la stessa democrazia, come conferma chi ha deciso di astenersi, in un numero superiore ad oltre il doppio del consenso ottenuto dal primo partito, Fratelli d’Italia.
Attenzione. Questa è una materia da maneggiare con estrema cura perché il disagio se non ha risposte, rischia di prestarsi a strumentalizzazioni fasciste e di esplodere, di andare fuori controllo, come l’assalto dello scorso anno alla nostra sede nazionale dimostra, l’attacco alla Cgil proprio perché simbolo e baluardo di democrazia.
Per queste ragioni, l’obiettivo ambizioso che ci diamo è quello di tornare a promuovere dal basso, dai luoghi di lavoro, dal territorio, una cultura del lavoro che diventi centrale, esattamente come nel 1970, quando grazie alle lotte operaie e studentesche si instillò nel Paese quella attenzione trasversale che portò molti partiti, non solo di sinistra, il PCI si astenne, ad approvare lo Statuto dei Lavoratori.
D’altro canto da qualche anno è depositata in Parlamento una proposta di Legge popolare, per la quale, nel 2016, raccogliemmo oltre un milione di firme e che va sotto il nome di Carta dei Diritti. Iniziare a considerarla e non continuare ad ignorarla, sarebbe un buon punto di partenza.
Inoltre, la Cgil da almeno un anno ha posto all’attenzione delle forze politiche, cinque temi, cinque vertenze, che sono diventate il cuore del primo documento congressuale, “Il Lavoro crea il futuro”. Si tratta di:
I salari e il fisco sono funzionali a consentire un recupero del potere di acquisto che si fa sempre più difficoltoso a causa dell’aumento vertiginoso dell’inflazione e del sostanziale blocco dei salari. Salari, lo ricordo, che sono diminuiti del 3% negli ultimi trent’anni in Italia e cresciuti di oltre il 30%, nello stesso periodo, in Francia e Germania.
Le ragioni sono sempre le stesse: lavoro discontinuo, basse qualifiche e propensione del nostro sistema produttivo a contenere il costo del lavoro, piuttosto che investire in innovazione.
E’ vero che negli ultimi anni una parte dei contratti è stata rinnovata ma ciò è accaduto in una fase in cui l’inflazione non era ancora esplosa, mentre sono da rinnovare i contratti nazionali dei settori che versano in maggiore difficoltà e mi riferisco al terziario, ai servizi, un esempio per tutti, il contratto della vigilanza, fermo da oltre sette anni.
Soffriamo, poi, la presenza di numerosi contratti pirata, oltre due terzi di quelli complessivamente sottoscritti, per superare i quali si rende necessaria una legge sulla rappresentanza che certifichi il grado di reale rappresentatività, in termini di iscritti e di voti di ciascuna parte sociale. Legge che consentirebbe di introdurre il salario minimo, purché riferito ai contratti sottoscritti dalle Organizzazioni più rappresentative.
Altra via per redistribuire ricchezza e garantire uguaglianza e benessere diffuso, è alleggerire il carico fiscale di chi le tasse le paga, per oltre l’80%, dipendenti e pensionati. Ciò vuol dire significativa riduzione del cuneo fiscale, maggiore progressività delle aliquote, lotta all’evasione fiscale, solidarietà da parte dei redditi alti e dei patrimoni più cospicui.
Il tema della precarietà l’ho già ampiamente affrontato, mi limito ad aggiungere che non possiamo non iniziare a porci la questione della riduzione dell’orario del lavoro che non solo aiuterebbe in termini occupazionali e di conciliazione con la vita privata ma servirebbe ad affrontare al meglio il processo di trasformazione a cui andiamo incontro, in termini di transizione tecnologica, digitale ed ambientale.
D’altro canto la pandemia ha segnato un passaggio in questo senso, con l’esplosione del fenomeno delle grandi dimissioni che ha visto protagonista chi non è più disposto ad accettare condizioni di lavoro considerate insostenibili in termini di stress e di basso salario. Altri paesi come la Gran Bretagna, la Germania, la Spagna si stanno sperimentando su questo terreno, quest’ultima dopo aver approvato, in accordo con le associazioni sindacali e imprenditoriali, una legge che supera il precariato, e che sta dando ottimi risultati.
Per quanto riguarda la Salute e la Sicurezza, c’è molto da fare, anche questo è un argomento che si lega ad un sistema produttivo, per una parte, insofferente alle regole, peccato la conseguenza sia le tante vite spezzate, oltre 1.000 persone all’anno. Soprattutto, ciò che ha reso ancora più inaccettabile questa situazione è la morte di giovani studenti, nell’ambito dell’alternanza scuola-lavoro che, a nostro parere, alle attuali condizioni, va superata.
Per quanto riguarda lo Stato Sociale, ne abbiamo imparato ad apprezzare l’importanza durante la pandemia ma sembrerebbe non essere servito a nulla. Il Servizio Sanitario Nazionale, un baluardo durante la diffusione del virus, continua ad essere sotto finanziato, riceve meno risorse di tanti altri paesi europei, ha carenze di organico. Sta sempre più e sempre più velocemente scivolando verso la privatizzazione.
Lo stesso dicasi per la scuola, anch’essa privata di risorse, interessata da processi di accorpamento che vanno nella direzione contraria al superamento delle classi pollaio, con un organico sempre più precario e mal pagato. Mentre ritengo pericoloso che la scuola si associ all’idea di impresa, il suo compito deve essere quello di educare gli adulti del domani non solo alle competenze ma ad essere persone consapevoli, in grado di ragionare con la propria testa, creative, curiose di conoscere, appassionate alla cultura, dotate di senso civico.
L’esatto contrario di meritocrazia, che mal si coniuga con un’idea di uguaglianza e di pari opportunità, soprattutto se condizionata da un approccio di fidelizzazione piuttosto che di capacità.
Infine, le politiche di sviluppo. L’arrivo delle tante risorse europee, attraverso il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, è una occasione che non va sprecata ma perché non lo sia non ci si può affidare al caso o, semplicemente, alla buona volontà delle imprese.
E’ necessaria e fondamentale una regia pubblica. Transizione tecnologica, digitale, sostenibilità ambientale, richiedono pianificazione, progettazione, indirizzo. Ad esempio, nel momento in cui si inizierà ad investire in energia alternativa, quale sarà la filiera? Acquisteremo pannelli fotovoltaici, pale eoliche altrove o favoriremo la produzione in Italia? Esempio analogo lo potremmo fare con la mobilità sostenibile.
Ed ancora, se la strada è quella dell’innovazione, di quale innovazione parliamo? Per fare cosa?
Infine questi non sono processi a saldo zero. Si pone la questione delle competenze, delle nuove professionalità che non possono provenire solo dal mondo della scuola e dell’Università ma che devono coinvolgere lavoratrici e lavoratori attualmente in forza che vanno necessariamente riqualificati, salvo prevederne l’uscita dal mondo del lavoro.
Ed allora questo implica la organizzazione della loro formazione, la introduzione di ammortizzatori sociali che ne accompagnino il passaggio, perché le loro stesse aziende saranno soggette a percorsi di riconversione.
Tutto ciò non può prescindere da uno Stato che sia in grado di guidare, di accompagnare, di orientare, di fissare gli obiettivi monitorandone il perseguimento.
L’esatto contrario di quanto abbiamo visto in questi 10 anni all’ex Ilva di Taranto, la più grande acciaieria d’Europa, che si sta facendo lentamente morire per l’incapacità di mettere in atto politiche pubbliche in grado di gestire e affrontare una situazione sicuramente complessa ma che non è da meno alle sfide che ci attendono nei prossimi anni e che richiedono un livello di preparazione e di competenza gestionale e politica senza precedenti.
Sono queste le nostre cinque priorità, cinque colonne portanti finalizzate a realizzare un modello sociale, economico, produttivo, profondamente diverso dall’attuale. Cinque azioni che abbiamo coerentemente e con perseveranza proposto in ogni occasione pubblica, che si trattasse di assemblee o di manifestazioni o di scioperi.
Contenuti con i quali ci siamo presentati all’attuale Governo, il quale al di là di qualche disbrigo formale nei nostri confronti, ha deciso di andare in direzione esattamente opposta e contraria. Ha proposto una legge di bilancio che colpevolizza i poveri privandoli del Reddito di Cittadinanza; incrementa il precariato attraverso la reintroduzione dei voucher nei settori più esposti; ha deciso di non perseguire l’evasione fiscale, anzi la agevola; ha alleggerito il carico fiscale di chi è più agiato; non rafforza lo Stato Sociale, al contrario lo indebolisce; non dà risposte in termini di previdenza, penalizzando in particolare le donne e i giovani; modifica, per l’ennesima volta, il Codice degli Appalti, favorendo quel sottobosco di illegalità che trae il massimo vantaggio dall’allentamento delle regole.
Se, come dice la Presidente Meloni, il tempo a disposizione era poco per fare altro, appare ugualmente del tutto evidente qual è l’indirizzo di questo Governo, ossia l’esasperazione di una logica di mercato, condito da messaggi inequivocabili di ordine e disciplina come la conversione in legge del decreto sui Rave dimostra.
Né possono apparire misure di sostegno la riduzione del cuneo fiscale, insufficiente ad affrontare la crescita dell’inflazione e l’aumento delle pensioni minime, aumento riconosciuto a fronte di un taglio della rivalutazione di quelle più alte, non certo le pensioni d’oro, molto spesso utili ad aiutare il disoccupato o il precario che si ha in famiglia, se non a pagarsi eventuali spese di assistenza in caso di non autosufficienza. Quest’ultima una piaga sociale dei nostri tempi determinata dall’abbandono dello Stato nel momento di massimo bisogno.
L’aspetto più grave, anzi, è che queste misure sono servite a fare cassa.
Eviterei di accusarci di avere una posizione ideologica. Avevamo detto da subito che non abbiamo preclusioni, i cittadini hanno scelto, l’esito elettorale si rispetta, ma altrettanto avevamo rivendicato la nostra autonomia e il nostro stare sul merito delle questioni, avendo come faro la Costituzione e i valori che le derivano di giustizia sociale, di uguaglianza, di solidarietà, di dignità del lavoro e della persona, di antifascismo.
Per cui, sono sicuro, nelle prossime settimane e nei prossimi mesi continueremo nel solco del percorso democratico per il cambiamento.
Lo faremo a livello nazionale, come a livello territoriale, a partire dalla nostra Regione. E’ di qualche giorno fa la pubblicazione di due autorevoli studi uno dei quali della Fondazione Nord Est. Studi che evidenziano come il 2023 possa essere un anno critico per il Veneto che a differenza di Lombardia ed Emilia Romagna continua a perdere posizioni in Europa.
Se questo accade, continua l’analisi, lo si deve alla piccola dimensione delle imprese, alla loro scarsa propensione all’innovazione e alla specializzazione, al mismatch tra offerta e domanda di lavoro, ai ritardi nell’ambito della istruzione e della formazione, al declino demografico che richiederebbe un saldo migratorio di almeno 50.000 unità all’anno.
In sintesi il modello Nord Est è in crisi ma, soprattutto, continua lo studio, manca la guida politica, citando come esempio il condominio: è come se l’Amministratore si limitasse ad assecondare le istanze dei singoli condòmini rissosi.
Lo ribadisco, non è una ricerca della Cgil ed il quadro che ne emerge è impietoso e va esattamente nella direzione di ciò che noi denunciamo da tempo. La fotografia è nitida.
Evito di dilungarmi su ciò che andrebbe fatto, su quali sono le nostre proposte perché non differirebbero particolarmente da quanto già esposto descrivendo la situazione nazionale, a partire dalla necessità di una regia politica, della elaborazione di un progetto e di un piano industriale.
Questo in una Regione il cui export si lega molto all’economia tedesca, con il grosso rischio di divenire marginali, perché mentre la Germania corre in innovazione, ad esempio nelle auto elettriche, noi non seguiamo il passo.
Siamo cioè immersi in quella cultura, non totale ma prevalente, che si basa ancora sul tirare a campare contenendo i costi, a partire da quelli del lavoro. C’è bisogno d’altro, di investire in ricerca pubblica e privata, di accorparsi, di avviare processi strutturali di trasformazione, di cambiamento, di riqualificazione.
C’è bisogno di una Regione forte e non di un Governo Veneto che si limita a non disturbare mentre il treno deraglia.
Anche perché la stessa ricerca evidenzia che pure i redditi sono in diminuzione, e non può essere diversamente. Basta leggere i report di Veneto Lavoro per avere chiaro che molto del nostro mercato del lavoro è intriso di precariato, in particolare nei settori Commercio e Turismo che sono trainanti per il Veneto, una Regione che vede nel turismo e non nella manifattura la principale fonte di entrata.
Pertanto è sbagliata l’idea di non ripristinare un’addizionale regionale a carico dei redditi più alti affinché siano solidali con chi fa fatica, con chi arranca e soprattutto a supporto di quelle realtà sociali e sanitarie i cui costi, aumentati di molto a causa del caro energia, sono in buona parte sulle spalle di utenti e loro familiari.
E’ il caso delle Case di Riposo, che si continua a non voler riformare e per le quali da oltre vent’anni attendiamo una Legge che le trasformi in Servizi Pubblici pienamente integrati nella rete socio sanitaria.
Analogamente per la Sanità, si assiste inermi alla fuga del personale sanitario dalle strutture pubbliche, certo ci sono delle responsabilità importanti della politica nazionale ma non registriamo una reazione altrettanto ferma e decisa della Regione che margini per intervenire ne ha, se non altro perché l’80% del proprio bilancio è destinato a questa materia.
Ed ancora il Trasporto Pubblico Locale, nella nostra Provincia è letteralmente al collasso, mentre altrove, ad esempio in Lombardia ed Emilia Romagna, i rispettivi Governi intervengono con sostegni economici importanti.
Né la soluzione può essere l’autonomia differenziata, la pandemia ce lo ha insegnato, non possiamo avere venti sistemi sanitari diversi, né una Istruzione frammentata e dove ciascuno decide per sé. Sarebbe deleterio e la fine della unità di un Paese che già adesso non si distingue per omogeneità.
Prima di approcciarci a qualsiasi ragionamento in tal senso, vanno definiti quali sono i principi fondamentali, quali i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere uguali per tutti, quali gli strumenti di perequazione economica perché nessuno resti indietro.
Eventuali altre decisioni o accelerazioni, costituirebbero un serio rischio per la tenuta dell’Italia.
Infine, con riferimento alla vicenda dell’uso dei tamponi rapidi in piena pandemia, ritornata di grande attualità in seguito alla trasmissione Report, la Cgil in tempi non sospetti denunciò una scelta che, dati alla mano, si dimostrò infausta determinando un numero di morti superiore alla media nazionale. Al di là degli accertamenti giudiziari, al Professor Crisanti va la nostra solidarietà.
L’ultima parte della relazione riguarda il territorio padovano.
Un territorio che in questi ultimi quattro anni ha attraversato, esattamente come nel resto del Paese, momenti di crisi, di difficoltà, di ripartenza, di ripensamento.
Una provincia oramai a consolidata vocazione terziaria, da almeno un quarantennio, con un tessuto produttivo fatto prevalentemente di piccole – medie imprese ed una agricoltura che insiste particolarmente nella bassa padovana.
In ambito pubblico, invece, siamo in presenza di una delle più prestigiose Università europee e di un Ospedale di avanguardia a chiara vocazione internazionale.
Cosa è successo in questi quattro anni. Di sicuro gli ambiti più esposti sono stati i servizi, distinguendo tra ambito commerciale e servizi alle Imprese.
I primi quelli che ne hanno risentito maggiormente. Si tratta di bar, ristorazione, alberghi, non dimenticando il settore termale, il più grande d’Europa.
Senza andare troppo lontano è bastato vedere cosa è accaduto nella zona in cui ha sede la Camera del Lavoro. La gran parte di bar, mense, ristoranti non ha più riaperto. Realtà che impiegavano, prevalentemente personale femminile, precario.
Meglio è andata per i servizi alle imprese che si sono però riorganizzati ricorrendo in gran parte allo smart working, che andrebbe definito più correttamente lavoro da remoto, se non a domicilio. Una soluzione che ha investito in particolare e strutturalmente il mondo delle comunicazioni.
Ha tenuto invece la manifattura, compresa quella artigiana, e l’agricoltura.
Difficoltà maggiori si sono avute nell’ambito dei servizi sanitari e sociali.
La pressione è stata tale da portare alle dimissioni di parte del personale medico e sanitario, un numero consistente del quale si è riorganizzato in proprio, privatizzandosi, mentre dimissioni importanti hanno riguardato il personale delle Case di Riposo, in particolare gli OSS che sono a loro volta migrati verso strutture sanitarie.
Da non dimenticare chi per queste strutture lavora, pur non essendo un pubblico dipendente, come il personale delle pulizie, o chi svolge assistenza a domicilio che soprattutto allo scoppio della pandemia è stato esposto al virus senza alcun tipo di tutela.
In sintesi, oggi non siamo più quelli di quattro anni fa, la geografia del lavoro, come evidenziato, si è almeno in parte modificata.
Quali sono le prospettive attuali. Di sicuro incerte. E’ evidente che andremo incontro ad una fase di recessione, come tutti i principali istituti prevedono, mentre non è ancora chiara la dinamica degli aumenti del costo dell’energia e delle materie prime, la copertura attuale, tramite finanziamenti pubblici è garantita per un trimestre.
Le aziende energivore, in particolare, come ad esempio le acciaierie, fanno presente che oltre un certo limite, anche se c’è mercato, non ha senso produrre, i costi sarebbero più alti dei ricavi. Così come non sarebbero in grado di tenere gli ambiti commerciali già provati dalla pandemia.
Tutto questo, poi, è in buona parte determinato dalla guerra, il cui esito nessuno è in grado di prevedere. A maggior ragione, è interesse generale che a prevalere sia la soluzione diplomatica e, di conseguenza, la pace.
Se questo è il contesto, è ancora più necessario adoperarsi per un lavoro sinergico, di rete, che coinvolga Istituzioni, Organizzazioni Sindacali, Associazioni Datoriali al fine di elaborare un articolato indirizzo delle politiche necessarie al nostro territorio.
Gli obiettivi sono molti, dal turismo di qualità, alla innovazione tecnologica e alla specializzazione produttiva, alla sostenibilità ambientale, alla riqualificazione urbana, alla mobilità sostenibile, alla ricerca, alla sanità pubblica, ad un sociale inclusivo, all’istruzione, alla formazione, ad una agricoltura 4.0, ad un credito etico.
Padova ha enormi potenzialità, anche grazie alla presenza dell’Università.
Una sperimentazione l’abbiamo già fatta ed è stata quella del Competence Center. Una esperienza iniziata oltre tre anni fa e che, facendo un primo bilancio, presenta luci e ombre.
Le luci sono l’aver accettato tutti insieme, Organizzazioni Sindacali, Associazioni Datoriali, Istituzioni, Università una sfida che provava a cimentarsi su un terreno nuovo e di grande prospettiva, quello della innovazione tecnologica e della transizione digitale, con l’obiettivo di promuovere una effettiva trasformazione del nostro sistema produttivo, fino a coinvolgerne la dimensione urbana.
Una sfida alta, passata attraverso due anni di confronto, coronata dalla sottoscrizione del Protocollo d’Intesa del 13 luglio 2021, il primo del genere a livello nazionale.
Un accordo che ha avuto applicazione, è passato ad una fase operativa, concreta, ha individuato alcuni ambiti sui quali formarsi insieme, lavoratori e imprese, per poi tentare di realizzare nuovi processi, nuovi prodotti, perfino, attraverso un modello partecipativo, nuove vie di sviluppo.
Un laboratorio che dovrebbe contribuire alla trasformazione della città, in particolare l’asse nord-est, facendone una Smart City e, attraverso la riorganizzazione della Fiera una capitale dell’innovazione.
Una felice intuizione, che come sindacato confederale ci intestiamo, il cui corso ad un certo punto si è interrotto, per ragioni legate alla mancanza di nuovi finanziamenti. E qui le ombre.
Una vicenda verrebbe da dire, all’italiana. Come pensiamo di proiettarci verso la quarta rivoluzione industriale, se poi ci fermiamo al primo intoppo burocratico, senza averne condiviso le difficoltà? Perché, ad un certo punto c’è stato un black out comunicativo, non abbiamo più ricevuto informazioni se non quando ci siamo attivati per capire cosa stesse accadendo.
Lo dico con forza, avendo qui presente la maggior parte degli interlocutori interessati, la Cgil di Padova non si arrende, per noi quel progetto deve andare avanti.
Se fallisse, avremmo perso tutti, ed invece è proprio dal territorio che devono arrivare i segnali di cambiamento, per dimostrare che un altro modello è possibile.
Anzi, da questo palco lancio una ulteriore sfida, aggiungo un altro pezzo, avendo avuto modo di parlarne in una recente iniziativa della Camera di Commercio. Perché non fare a Padova, ciò che è stato fatto a Valencia, in Spagna, ossia sperimentare territorialmente, noi per primi la riduzione dell’orario di lavoro, attraverso un accordo che ci veda, ancora una volta, protagonisti?
Perché non provare a dimostrare che attraverso la conciliazione dei ritmi di vita e di lavoro, può incrementarsi la produttività? Perché non preparaci al domani, quando la inevitabile maggiore automazione richiederà una diversa distribuzione del lavoro?
Solo chi osa, chi ha visione contribuisce al progresso, alla crescita, allo sviluppo di una società. Sa guardare al futuro.
Molte altre cose ci sono da fare e si stanno almeno in parte facendo ma vanno portate a compimento.
Una di queste riguarda il tema della Salute e Sicurezza. La nostra provincia è collocata in una regione, nel 2021 seconda in Italia per morti sul lavoro. A questo proposito ringrazio il Prefetto per la sensibilità dimostrata avendo costituito, su sollecitazione delle Organizzazioni Sindacali un tavolo ad hoc sull’argomento. Un Tavolo non di semplice discussione e approfondimento ma in cui si esige vengano segnalati casi concreti da andare a ispezionare.
Ovviamente è molto ma non basta, l’ulteriore salto di qualità va fatto nei luoghi di lavoro, rafforzando le competenze dei nostri Rappresentanti per la sicurezza, togliendoli dalla condizione di isolamento in cui spesso si trovano, inserendoli in una rete che li veda coinvolti maggiormente nel rapporto con gli altri organi preposti, a partire dagli Ispettori. Preferibilmente prima che l’incidente accada.
Formazione, controlli, aumento del numero degli ispettori, banca dati e collaborazione tra gli Enti del Sistema Vigilanza, sono le ulteriori azioni da mettere in campo molte delle quali già previste dal Piano Strategico Regionale sottoscritto nel 2018, in seguito al drammatico incidente delle Acciaierie Venete e recentemente rinnovato, ma poco o quasi per nulla applicato.
Altrettanto importante per noi è il tema della legalità, soprattutto a fronte, da un lato dell’evolversi di possibili crisi, dall’altro per l’arrivo delle tante risorse del PNRR. A tale proposito, come già detto, non aiuta la ennesima riforma del Codice degli Appalti, è proprio nel sottobosco dei subappalti che cresce, indisturbata, la criminalità.
Per quanto ci riguarda, oltre alla importante sottoscrizione di un Protocollo in Azienda Ospedaliera, risalente ad alcuni anni fa e che va rinnovato e riaggiornato, nel corso del 2022 ne abbiamo firmato un altro altrettanto significativo, sempre in materia di appalti, con il Comune di Padova, con il quale abbiamo provveduto ad istituire anche un tavolo di monitoraggio relativo all’uso delle risorse del Piano Nazionale di Ripartenza e Resilienza.
Molto altro c’è da fare, questi accordi devono conoscere una maggiore capillarità nel territorio, vanno associati a momenti di formazione e sensibilizzazione, mentre aiuta la partecipazione al Tavolo della Legalità istituito dal Prefetto.
Soprattutto, devono essere estesi al privato, come la triste vicenda di Grafica Veneta ci ha insegnato, dimostrando che non c’è alcun luogo protetto. Il caporalato, lo schiavismo, lo sfruttamento, la violenza, la discriminazione, si insinuano perfino nel mondo della cultura.
Approfitto dell’argomento per evidenziare che su questi e altri aspetti, non siamo soli, data la proficua collaborazione che abbiamo nel territorio con il mondo delle associazioni, iniziando proprio da Libera, di cui siamo soci e a cui ci lega un rapporto ultradecennale.
Altrettanto dicasi per l’ANPI, con cui, in particolare negli ultimi anni, abbiamo condotto numerose battaglie in comune al fine di affermare e di consolidare il valore dell’antifascismo. A tale proposito permettetemi di ringraziare tutti coloro che ci sono stati vicini in occasione dell’assalto alla sede della Cgil Nazionale, il 9 ottobre del 2021, aggressione da cui non è stata esentata, seppur in forma minore, la nostra Camera del Lavoro.
A questo proposito ringrazio il Prefetto, il Questore e le Forze dell’Ordine per la grande attenzione che ci diedero in quel periodo e non venuta mai meno.
Molto lavoro è stato fatto nel campo dell’immigrazione e mi riferisco alla straordinaria esperienza di Io Accolgo che ha visto il coinvolgimento oltre che del Comune di Padova e di Cisl e Uil, di ben altre dieci associazioni.
Ugualmente per la Pace, di cui non si contano le iniziative, la più straordinaria delle quali, in chiave locale, la marcia del primo giugno dello scorso anno.
Sono stati ambiti in cui forte è stata la presenza del mondo cattolico, a partire dalla Curia di Padova e nello specifico di Suor Francesca Fiorese che in questi anni avete imparato a conoscere e che io definisco una Suora di lotta, tanto so che le fa piacere e che ringrazio.
Ci sono poi le Associazioni Studentesche, nello specifico l’UDU e la Rete degli Studenti Medi. Con loro il legame è stretto, costituiscono un laboratorio interessante di scuola politica e sindacale come non si vedeva da molto. Li caratterizzano energia, voglia di confronto, curiosità, spessore intellettuale ed i risultati si vedono come confermano le recenti elezioni universitarie, con un consenso che ha superato il 65%.
Con loro, con lo SPI, con l’AUSER e grazie alla collaborazione del Comune di Padova si è sottoscritto e si sta portando avanti quel bel progetto di integrazione tra generazioni e di apertura al territorio, oltre che di tutela di nuovi lavori, conosciuto come Progetto Portello.
Un altro ambito è quello di genere, ed anche in questo caso non posso non citare Il Centro Veneto Progetti Donna che si occupa da decenni di contrastare il fenomeno della violenza sulle donne e che al momento della sua nascita vide il coinvolgimento di diverse sindacaliste della nostra Organizzazione.
Oltre a ringraziare per il preziosissimo lavoro che fanno e per il sostegno che ci danno, consentitemi di aprire uno spazio di riflessione su questo argomento, a cui tengo molto. E’ doveroso farlo perché su uno dei balconi della nostra sede da lungo tempo campeggia uno striscione con su scritto: “la violenza sulle donne è un problema degli uomini”. E’ un monito forte, autentico, vero, la nostra società, ed anche la nostra Organizzazione per quanto sensibile sia, riproduce un modello patriarcale, un modello duro al cambiamento perché intriso di una cultura maschile che non vuole cedere il passo.
Lancio una dura provocazione. Con le dovute differenze, nel nostro paese siamo in una democrazia, ma sul piano culturale che differenza c’è tra la polizia morale iraniana, i talebani in Afghanistan e gli uomini che in Italia esercitano violenza all’interno delle mura domestiche fino a provocare la morte delle donne? Non è anche “la nostra” una scelta di non accettazione e di esasperata repressione dell’emancipazione femminile?
Se è così, allora è un dovere di noi maschi della Cgil, promuovere per primi un autentico cambiamento, che tenga dentro tutto, organizzazione, stile, linguaggio, modo di essere e di pensare. Facendoci aiutare e sapendoci proiettare all’esterno.
E’ un lavoro faticoso, complesso, perfino intimo, per quanto ci riguarda già iniziato ma che va sviluppato compiutamente.
Il lungo elenco delle associazioni, e mi scuso con tutti coloro che non ho citato, ci fa capire che non siamo soli, né a Padova, né a livello nazionale, lo ha dimostrato la manifestazione per la pace del 5 novembre a Roma e, a livello locale, l’impegno condiviso nell’ambito di Padova 2020, quando la città fu designata capitale europea del volontariato.
Si tratta di grandi energie che vanno convogliate, rese sinergiche, unite perché ciascuno di noi ha il medesimo obiettivo, vuole una società migliore, più giusta. Ed allora dobbiamo crederci ed agire insieme. Per quanto ci riguarda le porte della Camera del Lavoro sono aperte.
Un altrettanto doveroso ringraziamento, va fatto alle Istituzioni qui presenti, per il rispetto e l’attenzione sempre dimostrataci oltre che per la disponibilità al dialogo e al confronto.
Prima di parlare di noi, consentitemi di fare un passaggio sul sindacato confederale. Una buona parte del lavoro fatto territorialmente che vi ho raccontato, ha visto il coinvolgimento di Cisl e Uil. Al di là della diversità delle nostre posizioni nazionali, in particolare con la Cisl, divergenze non da poco, a Padova si è sempre lavorato con spirito unitario, senza particolari difficoltà. Cari Samuel e Massimo, spero si possa continuare così, perché ogni avanzamento, ogni conquista, è più facile da ottenere, non se le nostre sigle vanno d’accordo ma se lavoratori e pensionati sono uniti e tutti dalla stessa parte.
Infine, chiudo il mio intervento con una riflessione che guarda al nostro interno. Nello scrivere la relazione ho fatto fatica a selezionare, a decidere di privilegiare alcuni argomenti rispetto ad altri. Questo lo si deve alla eccezionalità degli anni che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo ma anche al tanto lavoro che abbiamo svolto.
Se poi è stato svolto bene o male saranno altri a giudicarlo.
Ciò che oggi dicono i numeri in termini di tesseramento, di prestazioni, di partecipazione alle iniziative, alle manifestazioni è che la nostra è una Camera del Lavoro, collettivamente intesa, dirigenti, funzionari, operatori, apparato, delegati, molto dinamica e generosa.
Ma, soprattutto, nonostante alcune crisi che ci hanno attraversato, la litigiosità che non manca durante le nostre riunioni, siamo una comunità di donne e uomini che hanno una gran passione e provano un profondo amore per la propria Organizzazione.
Questi sono gli elementi necessari per guardare al futuro facendoci sentire all’altezza, sapendo che la sfida più immediata sarà quella di far crescere la partecipazione, senza la quale ogni conquista, ogni avanzamento, è impossibile.
Ed allora, il compito che dobbiamo svolgere nei prossimi mesi e anni è maturare la capacità di stare nei luoghi di lavoro, nel territorio, nelle sedi aiutando i delegati, gli attivisti, gli iscritti e noi stessi a sviluppare un pensiero critico, ad appassionarci nuovamente allo studio, alla conoscenza, all’approfondimento, alla voglia di trasmettere e condividere con le persone che rappresentiamo le nostre elaborazioni, le nostre idee, i nostri contenuti, i nostri valori dimostrandoci aperti e permeabili anche ad un pensiero diverso.
Dobbiamo vincere questa cultura prevalente che vuole tutti noi stare alla superfice delle questioni senza addentrarci.
Una sessantina di anni fa militanti e sindacalisti di questa Camera del Lavoro, quando ancora non esisteva lo Statuto dei Lavoratori, e quindi non era previsto il diritto di assemblea, si trovavano nei bar, nelle osterie, nelle case per confrontarsi e discutere per ore, a volte facendo mattino.
Contribuirono a rendere grande il sindacato e a favorire quel cambiamento fatto di grandi conquiste civili e sociali che caratterizzarono gli anni settanta e di cui abbiamo potuto godere per lungo tempo ma che non sono per sempre.
Ora, noi non dobbiamo tornare al passato, è necessario che ciclicamente arrivino nuove generazioni capaci di rompere gli schemi esistenti per proiettarsi in un presente che non è mai uguale a sé stesso.
Ciò che dobbiamo, invece, recuperare, è un metodo assolutamente attuale, senza il quale rischieremmo di essere addomesticati ad un pensiero unico, magari quello di Jeff Bezos, il padrone di Amazon che già adesso ci procura cibo, ci propone libri, ci consiglia film.
Non sono luddista ed anche io sono figlio di questo tempo, ma vorrei evitare che finisse come nel romanzo Fahrenheit 451, scritto nel 1953 da un autore visionario, Ray Bradbury che lo ambientò ai giorni nostri, raccontando di una società in cui leggere o possedere libri era un reato, al punto che gli stessi venivano bruciati dai vigili del fuoco.
Fino a quando fu proprio uno di loro a capirne l’importanza, e ad adoperarsi per sconfiggere quel modello dominante.
Trovo che sia questa la nostra sfida, avere il coraggio di credere in un mondo migliore e adoperarsi per realizzarlo.
Possiamo essere come il pompiere ribelle del romanzo, quest’anno la nostra Camera del Lavoro compie 130 anni e noi siamo ancora qui.
Buon Congresso, viva la Camera del Lavoro di Padova, viva la Cgil!
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