Intervento di Aldo Marturano, Segretario Generale Cgil Padova, e Alessandra Stivali, Segretaria Generale FP Cgil Padova
Ieri, 25 febbraio era il termine ultimo per la presentazione delle liste elettorali su cui i prossimi 5, 6 e 7 aprile 2022 si voterà per le RSU, le Rappresentanze Sindacali Unitarie di tutto il pubblico impiego. Nella provincia di Padova, a poter potenzialmente votare saranno circa 20 mila lavoratrici e lavoratori, impiegati soprattutto negli enti locali e nella sanità, ma anche nell’Università, nelle scuole e accademie, negli enti di ricerca, nei tribunali, negli istituti penitenziari e, in generale, nelle diramazioni periferiche degli uffici ministeriali. Mai come quest’anno si tratta di un appuntamento particolarmente sentito, perché arriva dopo la proroga causata dall’emergenza sanitaria che ha ritardato il rinnovo di queste figure essenziali per garantire i diritti fondamentali di lavoratrici e lavoratori. Due anni, questi ultimi, segnati dalla pandemia, in cui sono arrivati al pettine i nodi causati da anni di tagli dei trasferimenti ai servizi pubblici, un’emorragia di risorse che con l’arrivo del Corona virus, a parole e a detta di molti esponenti politici (compresi coloro che sostengono il Governo), si sarebbe dovuta interrompere, addirittura invertire. E invece non lo si è fatto, lo si è proclamato ma non lo si è fatto e dopo due anni siamo al punto di partenza.
La conseguenza è una macchina dello Stato allo stremo, dove regna ovunque una cronica mancanza di personale (con carenze negli organici che si aggirano intorno al 40% negli Enti locali e del 66% nei Ministeri) che hanno inevitabili riflessi sulla qualità dei servizi erogati. Si tratta di un problema enorme, sentito in tutti i settori ma che in particolare in quello della sanità ha raggiunto dimensioni decisamente preoccupanti come rivelano i numeri forniti da Veneto Lavoro che evidenziano di come negli ultimi mesi, ben il 44% di medici, infermieri e operatori socio sanitari abbiano abbandonato il settore pubblico in favore di quello privato (meno stressante e più retribuito). A loro si aggiungono coloro che andranno in pensione, non compensati da significative nuove assunzioni mentre le risorse che la legge di bilancio stanzia per il prossimo triennio sono di 7,5 miliardi a fronte degli oltre 30 tagliati nel corso del tempo. La realtà è che contrariamente alla narrazione corrente, il Servizio Sanitario non è ritornato centrale, anzi si continua ad agevolarne la privatizzazione. Ed è un discorso che può essere applicato in tutti i settori del pubblico: nelle scuole e negli asili comunali, nei tribunali, nelle questure e prefetture, nelle carceri, nelle agenzie territoriali e negli uffici comunali. E la lista prosegue.
La verità è che, contrariamente a come vengono dipinti, i dipendenti pubblici non sono dei privilegiati, non vivono in “un’isola felice” rispetto ai loro colleghi del settore privato. Al contrario, come dimostrato da un recente studio del Caaf Cgil Padova che ha rivelato che ben l’85% di chi ha redditi da lavoro dipendente – e cioè dichiara meno di 35 mila euro lordi l’anno – riceverà poche briciole dalla riforma del fisco varata dal governo e considerato che la media degli stipendi dei dipendenti pubblici è di poco superiore a quella soglia, capiamo come analogamente ai primi, anche molti di loro faticano ad arrivare a fine mese visto che le loro retribuzioni sono rimaste sostanzialmente al palo da un trentennio a questa parte, addirittura con un arretramento del 3% contro un aumento medio europeo, per lo stesso periodo, di circa il 30% (dati OCSE).
Un livello degli stipendi che come accade nel privato anche nel pubblico vede penalizzate le donne, confermando anche qui il fenomeno del Gender Gap. Lo si deduce sempre secondo un altro studio svolto dal nostro servizio fiscale che ha analizzato gli stipendi di lavoratrici e lavoratori dipendenti nelle più grandi aziende pubbliche del nostro territorio: Ulss 6 Euganea, Azienda Ospedaliera, Università, Comune e Scuole. Ebbene: ne risulta che in media lo stipendio delle donne è del 20% in meno rispetto a quello dei loro colleghi maschi. Annualmente, stiamo parlando di una differenza salariale in meno per le donne di 6.630€ lordi annui, praticamente quasi 600 euro al mese. Eppure la parità salariale, nel settore pubblico, è garantita da ferrei tabellari. È evidente che tra le molteplici cause a determinare questa differenza, c'è il part time che per quanto non imposto dai datori di lavoro, definirlo volontario è, nei fatti, ancora una forzatura. Perché a ricorrervi sono quasi sempre le donne, considerando “culturalmente” naturale e pacifico che spetti sempre e solo a loro dover conciliare il lavoro retribuito con un altro lavoro, vale a dire quello di cura verso i figli e la famiglia.
Si tratta di temi che determinano la vita di migliaia e migliaia di lavoratrici e lavoratori, dalle cui condizioni di lavoro dipende la qualità della vita della cittadinanza nei nostri territori. Iniziare finalmente ad ascoltarli è il primo passo affinché la macchina statale funzioni e sia in grado di affrontare le sfide che il futuro ci riserva.